Testimonianze

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Maternità non può significare dolore. Ritrovare la gioia e la fiducia nel corpo.

Avevo ventisei anni. Ed ero allegra e bella, come allegre e belle devono essere delle donne che hanno sposato l’uomo che amano, il lavoro che sognavano da bambine, un futuro da plasmare secondo alte prospettive e un bambino da educare alla vita. Non ho mai creduto nel potere esclusivo della fortuna. E questa è stata la mia salvezza.”

Ho partorito Renato il 16 luglio del 2006. Avevo avuto una gravidanza serena fino all’ottavo mese.

Lavoravo a maglia la sua prima copertina turchese, parlavo con la pancia, facevo risuonare la bola messicana sull’ombelico per fargli sentire la presenza della sua mamma. Fantasticavo sul suo visino e lasciavo che mio marito posasse il suo capo per sentirlo muovere. Cose ordinariamente speciali che, credo e spero, facciano le mamme guardando la loro pancia crescere e il loro petto ingrossarsi.

Ma quella pancia era davvero troppo grossa. Dovevo preoccuparmi?

Evidentemente dovevo, perché la mia ginecologa non si era accorta che mi era venuto il diabete gestazionale. E così ero lievitata in pochissimo tempo di 24 chili. Al Sud mi dicevano che “era tutta salute”, al nord che forse “avevo un gemello non riconosciuto dall’ecografia”.

Ho cambiato ginecologo l’ultimo mese con urgenza e finalmente quel bravo professionista mi ha tenuta sotto controllo fino all’ultimo giorno modificando la mia dieta. Il diabete può causare seri danni al bambino, se non diagnosticato in tempo.

L’enorme pancia, esplosa per i chili in eccesso, mi ha provocato una diastasi dei retti addominali, perché nessuno mi ha mai spiegato che quel peso avrebbe danneggiato la mia parete addominale. In più, dopo tre mesi dal parto, mi sono accorta di non riuscire più a sedermi senza provare dolore al coccige. Non riuscivo ad allattare seduta.

Conseguenza del parto? Per mesi l’hanno escluso. Avevo partorito naturalmente. L’ostetrica mi aveva rotto le acque manualmente e non avendo le contrazioni quella notte me le aveva anticipate. Il bimbo non riusciva ad uscire, avevo richiesto dopo 12 ore di travaglio di avere l’anestesia. Ma non sentivo le spinte. Il bimbo aveva due giri di cordone al collo. Mio marito l’avevano mandato a casa con la giustificazione che fosse “troppo emotivo”.

Mi sentivo sola. L’unica in travaglio senza la mano o il conforto di un familiare. Volevo imporre il cesareo, ma poi mi sono ricordata che mia madre mi aveva sempre detto “speriamo non ti facciano il cesareo è sempre un intervento”, e allora io, intontita dal dolore, ho dato l’ultima spinta e come un pesce che nuota nelle acque serene, mio figlio è venuto alla luce. Con tutto l’orgoglio e la tenacia che una donna a cui dicono che il bimbo – se non sarò brava a spingere – soffrirà nel venire alla luce. Ho spinto. Sono stata brava.

Poi la pace, l’estasi. L’ho sentito morbido e caldo sulla mia pancia. Sono diventata davvero madre. E dopo aver accertato che stesse bene, ho urlato che ora per i punti volevo l’anestesia. “Datemi tregua. Ora datemi tregua.” La tregua apparente è durata pochissimo.

La cicatrice che mi avevano causato in clinica per l’episiotomia mi faceva male. Nulla era più come prima. Ma Renato era buono. Dormiva sereno. Forse aveva intuito in modo magico che la mamma soffriva. Sanguinava la ferita per l’episiotomia e mi graffiavo dal dolore da sola in silenzio in bagno per non far accorgere il mio giovane e bel marito che non ero più la ragazza spensierata a cui, sulla spiaggia candida in Africa, aveva chiesto pochi mesi prima di diventare sua moglie. Dicevano passerà. Non è passato. Da allora ho visto più di 20 specialisti e conservo ancora tutte le cartelle e gli esami a cui mi sono sottoposta perché sono il mio talismano.

“Dovrò sempre in larga parte alla dottoressa Malaguti e al dottor Lamarche e al loro staff la mia seconda vita.”

Anzi, il mio antidoto alla tristezza. Li ho effettuati a pagamento e con il servizio pubblico. Ho conosciuto ortopedici, mi sono sottoposta a manovre interne invasive e mortificanti, ad interventi e anestesie nello stesso mese; infiltrazioni, agopunture, specialisti che mi facevano terapie vaginali anche buffe e ridicole talvolta, trainer sportivi, medici che mi avevano prospettato malattie degenerative, forme tumorali. Primari che mi lasciavano a gambe aperte davanti agli studenti affinché studiassero il mio caso. Proprio io che nemmeno in palestra mi spogliavo con disinvoltura davanti ad altre donne per pudore.

Ogni giorno tornavo a casa con una speranza disillusa. Con una nuova diagnosi da sopportare e nuovi esami da fare. Nessun medico mi ha dato tregua o consultava la terapia del medico precedente. Mi hanno fatto fare talmente tanti prelievi che un giorno la dottoressa del centro di analisi si è rifiutata di eseguirli perché mi ha vista distrutta. Un giorno, dopo altri esami, esausta, ho persino avuto un incidente. Ero stanca. Mi imbottivano di medicinali come fossi un cavallo forte e non fragile, quale ero, come un’ala di farfalla.

Dentro e fuori il mio corpo mi stavo consumando. Un sacrificio inspiegabile. Avevo un bambino che doveva conoscere cosa significasse vivere e io, invece, stavo sopravvivendo, arrancando. Ma lo portavo al parco, lo facevo ridere ballare e cantare e soprattutto io non ho smesso mai di ridere. Mai. E non l’ho mai lasciato, parcheggiato da qualche parte. Anzi, una volta subito dopo una anestesia sono corsa da lui perché al risveglio non volevo che non mi trovasse. Ero soltanto una ragazza. Che sbagliava nella percezione distorta di sé, che non frenava i sensi di colpa che accompagnano quasi sempre le madri durante la prima gravidanza. Invitavo spesso molti amici e cucinavo per tutti. Era il mio antistress. Di notte, nel silenzio della casa che si riposa, cercavo su Internet soluzioni al nostro travaglio.

La verità è che nessuno si è mai accorto davvero di cosa io stessi passando.

Forse dovevo imparare a chiedere aiuto. Ma chi poteva davvero offrirmelo? Vedevo altre mamme al parco leggere, parlare di tutine o di palestra per tornare in forma, di feste e di spesa come unica preoccupazione. Oppure discorrevano di abiti alla moda da acquistare, mentre tutti i miei risparmi io li investivo in medicine o visite costose ed inutili. Colleghe del mondo dello spettacolo con pance ultrapiatte, che ballavano e cantavano in tv senza ombre di dolore. O amiche che avevano avuto gravidanze serene. E le ho invidiate. In modo buono, disincantato. Anche io volevo tornare normale. Dentro. Perché fuori nulla sembrava essere modificato. Ho litigato con una cara amica per un banalissimo motivo perdendola per sempre. Forse perché speravo che lei potesse vedere ciò che altri non sapevano cogliere, mentre lei, non accorgendosi del mio baratro, se l’era presa per sciocchezze di cui solo amiche spensierate e normali possono occuparsi.

A Roma un medico mi disse in romano perfino: “Ma tuo marito quando te lascia?” Già. Mio marito. Quanto avrebbe sopportato? Per questo, forse anche per proteggerlo, mi sono allontanata da noi. Volevo che se ne andasse. Che trovasse di meglio. Una donna montata correttamente. Che avesse ingranaggi funzionanti. Ho perso perfino la fede. Tante cose stavano cambiando in quella eterna epifania. Ma la vita non ha mai smesso di impressionarmi e meravigliarmi. Grazie a qualche buon Dio che non mi ha lasciata.

Un giorno mi sono imbattuta in un sito, digitando parole chiave che non dimenticherò mai: “dolore al coccige e parto” e ho scoperto un forum sul nervo pudendo. Ho conosciuto persone disperate, che avevano vissuto il mio stesso travaglio come fosse un lutto da sopportare o un letargo da accettare. Persone che facevano interventi che paralizzavano le loro tasche e le loro vite. Era l’unica fonte di informazione. Parlavano di un esame doloroso che però poteva sciogliere i miei dubbi. Un ago posizionato nelle parti intime con scosse elettriche. Ero certa che il mio nervo pudendo fosse stato lesionato.

Tuttavia a Roma non ho ottenuto risultati positivi, pur sottoponendomi con grande paura a quel test. Allora, cocciuta, ho voluto ripeterlo a Milano. Ero certa di avere quella nevralgia. Malgrado il parere contrario di tutti i medici consultati. E ho scoperto una neurologa, la dottoressa Silvia Malaguti, e il dottor Jacques Lamarche subito dopo. Sono entrata nel loro studio come fossi un baco richiuso dentro se stesso e sono uscita fuori farfalla. Sono arrivata da loro sottopeso, sei chili in meno del mio peso forma. In due anni avevo perso 30 chili dalla gravidanza. Io che sono alta 1.70 e ho sempre pesato 53 /54 chili. Ero sotto i 50. E non perché non mangiassi. Semplicemente non avevo coscienza delle mie esigenze, del mio corpo.

Andavo a fare terapia a Milano in treno e in piedi, perché non riuscivo a sedermi. Non potevo correre. Se mi sdraiavo a letto, ovvero dove le persone di solito riposano, mi dovevo attaccare al comodino per girarmi. Scrivevo con un salvagente posizionato sotto il sedere. Era bianco con le paperelle. Mi faceva sorridere. Cercavo di sdrammatizzare. Mentre tutti gli altri mi vedevano sempre fiorente, bella e felice, io ero pronta per la mia seconda vita. Come una araba fenice che risorge da qualche parte. La mia risurrezione è avvenuta nello studio de i dottori. Con loro, dopo due anni, finalmente ho pianto, abbandonando l’apnea emotiva.

Un giorno, che non dimenticherò mai, sono entrata con il mio solito sorriso e loro mi hanno detto semplicemente: “Ora basta”. Erano in quattro dentro la stanza. E ho solo pianto. Per mezz’ora o per un tempo infinito. Non saprei dirlo. Ed era la rabbia che usciva fuori. La delusione, lo sconforto, la ferocia, la debolezza che mascheravo. Mi hanno tolto i medicinali, ascoltata, rispettata. Ripulita. Mi sono sentita nuovamente una donna. Qualcuno ha idea di cosa significhi? Di quanto sciocchi per me saranno sempre ora le banalità del quotidiano? Come un po’ di polvere su una credenza, un pollo stracotto, lo sgambetto di un collega, un ritardo ad un appuntamento, il traffico in città, i ladri che ti ripuliscono di ricordi materiali, due chili presi durante le feste di natale? Non esagero, dovrò sempre in larga parte alla dottoressa Malaguti e al dottor Lamarche e al loro staff la mia seconda vita.

Sono passati cinque anni dal giorno in cui qualcosa, dentro di me, si è rotto definitivamente. Ho pubblicato quattro libri nel frattempo, condotto vari programmi televisivi e radiofonici, ottenuto premi, girato il mondo per le mie inchieste. Nella stessa giornata sono riuscita ad essere anche in quattro Paesi diversi. Ho scelto di traghettare il mio lavoro in percorsi etici ed utili con tracce di bellezza sparse qua e là. Mio figlio non mi ha mai vista sdraiata a letto a compatirmi. Sola mi sono ammalata di un male senza nome e sola sono guarita. Qualcosa l’ho perso per sempre. Inutile fare l’eroina impermeabile alla nostalgia. Se guardo le foto della ragazza che si sentiva un “re Mida” durante il giorno del suo matrimonio, non mi riconosco. E la invidio e mi manca. Come può mancarti una sorella. Altro da te, ma legata per sempre a te. Oggi desidero altri figli, anzi non ho mai smesso di sognarmi in mezzo a una mini-squadra di calcetto di figli.

Una delle donna che più mi ha idealmente dato la forza di non piangere è stata Frida Kahlo la cui immagine è di fronte il mio scrittoio. Quasi a ricordarmi che il dolore può trasformare le tue mani e la tua anima e creare. Arte, amore. Ma non basta. Devi affidarti a qualcuno di cui ti fidi. Come è successo a me. Ho paura? Sì. Ma quando ho paura, ritorno in una stanzetta di un ospedale di Roma, da sola, su una sedia. Quando ero lì ad aspettare che il primario tornasse a dirmi se quelle macchie intraviste nelle lastre fossero forme tumorali. Avevo un vestito nero a pois bianchi. E delle scarpette basse, rosse, dolorosissime. E lì ho giurato che se non fossero state forme tumorali, io sarei stata una donna sana. Dentro. E grata. E affamata. Ogni giorno sarebbe stata una festa. E ho inseguito con bramosia ogni scoperta. Senza risparmiarmi. Oggi odio e amo il mio onfalos. L’ombelico e la mia pancia. Perché da lì tutto ha avuto origine.

Tutto il bene e tutto il male che ho scoperto esistere nella vita. La maternità e il dolore. La dottoressa Malaguti e il dottor Lamarche ancora oggi mi seguono. Hanno trattato il lato motorio del mio corpo non trattandomi mai soltanto come paziente, ma come essere umano da accompagnare nel percorso di guarigione. E so che hanno anche patito nel vedermi fragile e gioito nel ritrovarmi rafforzata. Hanno anche conosciuto e parlato con mio marito. Ci hanno sostenuti come nessuno era stato in grado di fare. Non esistono scorciatoie. Nemmeno strategie. La medicina è una scienza a cui affidarsi.

Ma senza un approccio umano e globale, non trovi la forza per avere fede. Per riacquistare memoria del buono e del bello che la tua vita ha da darti. Ed io ho dovuto recuperare anche quella. Senza sconti nel percorso. Spero che la mia storia aiuti persone che hanno scoperto cosa significhi un dolore senza nome, proprio come le persone che ho conosciuto sul forum, ad affidarsi alle giuste cure. Senza fretta. Per questo oggi so che non potrei raccomandare le loro sofferenze ad altri che i dottori Malaguti e Lamarche. Se sono stata in grado di raccontare la mia verità e di affrontare la mia nuova vita, lo devo a loro.

Francesca Barra

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